GRILLO PARLANTE di Armando Ginesi Lettera al Presidente Mario Monti

Illustrissimo Signor Presidente del Consiglio dei Ministri,
vorrà scusarmi se mi permetto di importunarLa. Sono perfettamente consapevole dell’enorme quantità di impegni che La assorbono in questo delicato momento della vita nazionale, ma, pur non essendo un politico né un tecnico di cose che ruotano attorno alla politica (si immagini, sono un modesto storico dell’arte specializzato nelle avanguardie artistiche del Novecento) ma sono pur sempre, come dice Aristotele di tutti gli uomini, un “animale politico” e, com’è ovvio, anche un cittadino che cerca di rispettare gli obblighi che derivano dalla sua condizione, convinto di dover godere, nel contempo, pure di una serie di diritti.

Fra cui quello di opinione. E poiché ho girato un po’ di mondo, ho conosciuto e conosco qualche personaggio importante della cultura, della politica, della scienza di varie parti del globo, penso di poter dire la mia sulle recentissime amare vicende che stanno turbando il nostro Paese. Signor Presidente che l’Italia avesse bisogno di stoppare un lungo, lunghissimo (quarant’anni, più o meno?) periodo di allegra amministrazione, chiamiamola così, di interrompere un sistema che la faceva vivere secondo standard al di sopra delle sue concrete possibilità, spinta da un apparato ideologico ed etico sedimentato nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale che aveva elaborato una visione culturale e morale fondata soltanto sui diritti e mai sui doveri, in direzione di un edonismo quotidianamente crescente (complice diabolico il consumismo), di una insofferenza ad ogni tipo di regola di convivenza civile, di arroganza individuale e sociale, che l’Italia avesse bisogno, dicevo, di interrompere il perverso percorso verso il baratro, non nutro alcun dubbio.
La politica (intendo i partiti) ha clamorosamente fallito, generando quel fenomeno pericoloso per le istituzioni che suole chiamarsi “antipolitica” di cui essa soltanto porta tutta intera la responsabilità. Quotidianamente episodi di malcostume, di prepotenze, di ruberie, sono sotto i nostri occhi e non vale la pena di insisterci troppo.
Lei è stato chiamato, assieme ad altri suoi autorevoli colleghi, a gestire questo difficilissimo momento in nome di competenze tecnico-scientifiche da voi possedute. I partiti sono stati, per un attimo, messi da parte, viste le enormi responsabilità che hanno assunto per costruire la via che conduceva (o dovrei dire conduce?) verso il disastro. Quello Suo è stato chiamato “governo tecnico” (in modo non proprio corretto, perché un governo è sempre politico fino a che agisce un Parlamento che ne deve approvare o bocciare le decisioni operative) per sottolinearne la natura non partitica, non ideologica, non parziale, a favore di quella più asetticamente e oggettivamente specialistico-pratica. Ed ha iniziato a lavorare all’insegna di due imperativi categorici: rigore ed equità.
Circa il rigore, ripeto, nulla da dire: vale il discorso fatto sopra. Bisognava e bisogna richiamare al buon senso tutti coloro che non lo posseggono, piaccia o non piaccia, con metodi “scientifici” che possano mettere al riparo da disastri certi. Il corteo di topi che festosamente incosciente seguiva, danzando, la musica suadente del pifferaio di Hamelin diretto inesorabilmente verso il mare dove sarebbe annegato, andava fermato.
Conosciamo i guai che i partiti (sia di governo che di opposizione, perché si governa anche stando all’opposizione, specialmente in Paese come il nostro dove il trasformismo è fortemente presente nel DNA della cultura e della morale) hanno prodotto, soprattutto nel settore pubblico di cui ha lievitato i costi senza alcuna crescita della qualità dei servizi erogati. Tanto per fare qualche esempio, si è operato nella scuola non pensando di fare l’ interesse del suo utente naturale, che è lo studente, ma preoccupandosi sempre e solo del personale impiegato, docente o amministrativo o ausiliario che fosse, perseguendo una sciagurata politica demagogica che nella sanità non ha guardato al malato ma al personale medico e paramedico, nelle poste non al cittadino destinatario del servizio ma agli operatori dello stesso; e così dicasi per le ferrovie e tutti gli altri ambiti dell’operare pubblico.
Conosciamo gli sprechi (e non abbiamo bisogno di leggere i giornali per rendercene conto, tanto essi sono palesemente sotto i nostri occhi ogni giorno) che si verificano, le irrazionalità e la disorganizzazione delle varie prestazioni che costano danaro a fiumi. Conosciamo le ruberie. Conosciamo il fenomeno dell’evasione e quello, più raffinato, dell’elusione fiscale. Siamo consapevoli di ogni cosa e pienamente convinti che solo applicando il rigore (ma quello vero, asettico, impersonale, del metodo) si possa fermare il male, anche amputando. Il taglio di una gamba non piace a nessuno (neppure al masochista), né al malato che lo subirà e neppure al chirurgo che lo praticherà, ma se risulta l’unico modo per salvare una vita lo si deve praticare per forza.
Però il secondo elemento della programmazione del Suo governo, signor Presidente, era l’equità. Perché un rigore come quello sopra descritto se non è risolto in un clima di giustizia e di imparzialità diventa iniquo. Mal sopportabile. Pericoloso per la pace sociale. E allora mi permetta, signor Presidente, di dire a Lei e ai suoi ministri che non può essere definita equità il sottoporre al regime dell’IMU per la seconda casa dei poveri vecchi ricoverati negli ospizi e, al tempo stesso, esonerare dall’obbligo dell’imposta, le sedi delle fondazioni bancarie; non può dirsi equità la generazione del fenomeno dei cosiddetti “esodati”; non equità l’elevazione automatica dei limiti pensionabili; non equità il raggiungimento di uno stato di tassazione per le imprese e per i singoli che nessun altro Paese applica; non equità aggredire come malfattori tutti coloro che posseggono UNA casa (l’80% degli italiani) e punirli come avessero compiuto le più atroci malefatte del secolo quando invece si sono comportati, antropologicamente, eticamente ed economicamente in modo saggio, assecondando l’istinto primario della tana nel primo caso, risparmiando e reinvestendo nel secondo e nel terzo con il risultato di produrre anche lavoro); non è equità fissare limiti di tracciabilità della movimentazione del danaro talmente bassi da mettere in difficoltà una massa enorme di persone anziane costrette ad aprire conti correnti bancari), non da’ impressione di equità il fatto che molte delle operazioni conseguenti alle decisioni governative portino risultati positivi agli istituti bancari; non equità aumentare ogni giorno il costo della benzina (con ricadute negative sull’intera economia) a prescindere dal costo del petrolio.
Signor Presidente, un modestissimo consiglio: se vuole far del bene a questo Paese tagli la spesa pubblica; riduca, ma di molto, i costi della politica; crei le condizioni perché gli enti inutili vengano soppressi (tra cui le Province le quali, a quanto ho capito, ce le ritroveremo invece sul groppone sotto altra forma); faccia controllare (magari con la collaborazione della Corte dei Conti) le spese delle Regioni (ordinarie e a statuto speciale), di cui nessuno parla, dagli stipendi e appannaggi vari dei dirigenti, allo standard delle loro trasferte, al costo dei deliri dei governatori che si credono tanti ministri degli esteri; cerchi di sensibilizzare sempre più i partiti perché il Parlamento chiuda il rubinetto fluente dei finanziamenti pubblici (peraltro bocciati dagli italiani a mezzo referendum, ma ripristinati truffaldinamente sotto forma di “rimborsi elettorali”); convinca la politica a ridurre sensibilmente il numero dei parlamentari, sia alla Camera dei Deputati che al Senato; faccia in modo che prebende varie (stipendi di alti dirigenti, di alti magistrati e quant’altro, comprese le loro liquidazioni e pensioni) rientrino dentro parametri umani; faccia in modo che i tagli riguardino anche la TV pubblica che non deve rincorrere quella privatanella gara di chi spende di più: quella pubblica, proprio perché è pubblica, svolga una funzione diversa dai balletti di pallettes e lustrini e lasci a casa i Celentano, i Benigni (anche se bravi) ma, soprattutto non paghi i loro cachet stratosferici. Poi metta le mani nella sanità, nel groviglio scandaloso dei contratti intramoenia ed extramoenia, nei macchinari biomedici costosissimi che lavorano sei ore al giorno quando dovrebbero farlo ventiquattro ore su ventiquattro, nei sistemi corporativi che fanno allungare le degenze e lievitare i costi fino al settimo cielo.
Signor Presidente, nella pratica del rigore debbono entrare i tagli ma, ancor di più e prima, la RAZIONALIZZAZIONE delle spese. Vedrà che risparmi! Lo faccia, contro ogni resistenza lobbistica, dicendo chiaro e tondo che o si fa così o il governo manda tutto e tutti al diavolo (tanto già ci siamo vicini). Altrimenti, mi scusi se mi permetto, da povero storico dell’arte che con la matematica ci azzecca poco e male, di suggerirLe un altro metodo: tassare ogni italiano (dai neonati a quelli che sono sul limite della tomba) di cinque euro a testa e così, di punto in bianco, incasserebbe trecento milioni, senza battere ciglio. Poi se non bastassero si potrebbe arrivare a dieci euro a cranio: tanto che vuole che sia! Il totale non sarebbe poco, ammesso che qualche dirigente di partito con ci mette prima le mani sopra intercettando le riscossioni. Ma non mi pare – lo dico con tutta modestia – che ci voglia una gran perizia tecnica per fare un’operazione del genere. La potrei fare anche io che, in genere, discetto di Futurismo, di Cubismo, di Astrattismo, di Dadaismo, di Surrealismo, di Espressionismo e via dicendo e non di alta economia e finanza internazionale.
In ogni caso non l’invidio e si abbia la mia umana solidarietà.

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